Diritto alla Materia.
Verità.
Vivendo in una delle città della ceramica, fin da bambino mi sono trovato di fronte la terra da plasmare: sul piccolo tavolino della scuola elementare rivestito di una lamina verde mare, un panetto di terra, fasciato nel nylon e appoggiato in verticale.
Ricordo l’odore profondo e di naturale chimica che ne emanava all’apertura.
E la terra umida.
La manualità, le mani che plasmano per parlare, comunicare.
Un’esperienza diretta di coesione materica con il Mondo: guardare e immediatamente agire, istintivamente e con lo stupore di vedere “prendere forma” la materia, umida, viva, plasmabile ma con una propria essenza, resistenza, regole, durata, fragilità e mistero.
Se dovessi spiegare sinteticamente il collegamento fra il profondamente locale, provinciale, identitario, genealogico, e il mondo “globale”, allora userei proprio la terra e il gesto erotico del plasmare con le mani; e poi il colorare, il cuocere: l’agire sulla terra è l’archetipo collettivo della nascita delle civiltà , ma non è collocato nella preistoria, relegato oggettivamente e pedagogicamente dentro gli infiniti musei delle civiltà del mondo; al contrario è presente e vivo oggi, sempre, come istinto erotico, sensuale, archetipico, direi pan-ico, di azione, modellazione. E’ l’idea di contemporaneità che sento più viva e pulsante: arcaica, infantile, misteriosa, plasmabile, potenziale, materica e legata al saper fare.
Ecco. Saper fare. Saper disegnare, saper plasmare, saper usare le mani, saper guardare per vedere. Saper lavorare.
La “tacita adesione al mondo” passa attraverso la materia, la corporeità. E il saper fare, appunto.
E’ azione contemporanea, non preistorica.
La scelta di usare la terra per fare i modelli di Architettura, è nata un giorno di circa 20 anni fa da una esigenza impellente e violenta del nostro presente, la velocità: la richiesta di produrre velocemente un modello territoriale per una presentazione ufficiale piuttosto importante.
La velocità è un’incredibile malattia del nostro cattivo presente, perché determina un’assoluta incapacità di percezione sensibile del reale (Paul Virilio Le Futurisme de l’ instant. 2009).
L’intuizione fu di reagire alla richiesta impellente di velocità con una materia lenta e fisica. Fragile.
Così mi si presentó, dialogando con Danilo Trogu , fratello di materia, l’idea di plasmare con la terra il suolo e gli edifici, una specie di archeologia romana, una forma urbis senza dettaglio, plasmata e terrosa.
Si trattava di un progetto per Roma del resto.
In realtà un esercizio già tentato durante gli studi universitari: un modello di luogo pubblico per Piazza della Pilotta a Parma, che nell’inverno del 1992 portammo con Maurizio Vallino al colloquio di selezione per l’ILAUD , il corso estivo di architettura e urbanistica, di fronte a Giancarlo de Carlo, che ne era fondatore e guida, a Enrico Bona e al futuro socio e amico Pierluigi Feltri: il modello, non cotto, aveva spaccature naturali della materia che facevano respirare un senso di terra, tempo e tragedia, un involontario ma diretto riferimento ai Cretti di Burri.
Ciò che emerse anni dopo, tirando fuori dal forno del Laboratorio di Danilo le lastre del primo modello, era un misterioso “portato spirituale” del progetto: la materia più basica, plasmata con le mani, esprimeva un’anima progettuale, che, attraverso materia e azione sapiente su di essa, da invisibile diveniva visibile nella sua essenza, appunto spirituale. Si trattava di un lavoro a due mani, il saper fare artigianale e sensibile di Danilo, il sogno e il progetto che io veicolavo nelle mani e nel colore tramite l’esperienza infantile della terra.
Questo dialogo a due cuori e 4 mani da allora ha prodotto più di 40 modelli, da quello del Palazzo del Cinema di Venezia, essenziale nel 2004 nel comprendere la materia e l’anima del progetto con l’amico e Maestro Rudy Ricciotti, a quello recente della Moschea di Sokhna nel 2018, “plasticato” con l’aiuto di Antonio Lagorio, nel quale la fatica fisica e manuale è stata direttamente proporzionale allo stupore di scoprire il progetto nella sua essenza più profonda di corpo nudo, senza vestiti superflui; quasi senza pelle.
Era scattato allora, fra il 2000 e il 2004, quel meccanismo di dialogo fra visibile e invisibile, fra materia e anima progettuale che mi ha guidato istintivamente nei progetti successivi, con la coscienza di un significato specifico: una adualità, ovvero una negazione degli opposti, un rifiuto del dualismo moderno, un’inclusione delle apparenti incompatibili componenti divergenti: Corpo e Anima.
Il modello in terra “rivela”, in una fase ancora progettuale, lo spirito invisibile del progetto, la sua anima potenziale.
Gianluca Peluffo
Villa 4/Villa Tenda
Sokhna. Egitto
modello
Terracotta, ingobbi colorati
dimensione
max (LxPxH) 40 x 15 x 9 cm
realizzato
Gianluca Peluffo
con
Danilo Trogu – Casa dell’Arte
fotografie
Ernesta Caviola
Gianluca Peluffo