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Materia e corpo

Diritto e dovere alla MATERIA e al CORPO

Il nostro corpo non è nato per il monologo, ma per le differenze e per l’incontro di quelle differenze.
La polifonia è il destino del nostro corpo.
Luce Irigaray lo definisce come “corpo sessuato”(2) determinante la soggettività e capace di divenire il punto da cui ripartire per “incontrare l’altro”.
Rimanere fedeli alla realtà significa accogliere tutti gli eventi con la propria fisicità.
Così, come architetti, perseguiamo l’idea di un’Architettura che sia “Corpo”, che cerchi il piacere, che abbia fisicità, sensualità, soggettività ed unicità per potersi relazionare e per poter evitare il monologo: una architettura come “corpo sessuato”, portatrice quindi di dialogo, incontro, polifonia, visione, realtà.
L’architettura NON E’ UNA MACCHINA.
L’architettura E’ UN CORPO.
Non ha la perfezione come suo obiettivo, ma ha nella capacità di integrarsi, trasformarsi, decadere e rinascere la sua essenza. Al contrario delle macchine, del mondo della tecnologia che, nel quotidiano, mira alla velocità, alla smaterializzazione e alla perdita di peso, l’Architettura Corpo che noi perseguiamo è portatrice di fisicità.

Un’Idea di Architettura che sia “Corpo”, ha quindi direttamente a che fare con il tema della Materia, della fisicità, del peso dell’Architettura stessa: crediamo fermamente che proprio in questo cattivo presente pervicacemente fondato su velocità, superficialità, comunicazione e smaterializzazione della realtà, la forza fisica della materia del corpo, sia il principale antidoto alla negazione della verità.
Il Corpo e la sua Materia sono le basi del dialogo e della conoscenza.

(2) Condividere il mondo, Luce Irigaray Bollati Boringhieri, Torino, 2009

Gianluca Peluffo
Per 5+1AA SRL
aprile 2014-09-14

Dacché il pianeta Terra è diventato, almeno parrebbe, troppo piccolo per il Progresso e persino insalubre, siamo talmente tormentati da tutte le parti che non solo non c’è più tempo per avere paura, ma non c’è più avvenire per i nostri progetti… E allora non ci resta che lo spazio, tutto lo spazio tragi-comico di un universo in accelerata espansione verso il big crunch, la fine dei tempi e della storia cosmologica! (P.Virilio)

Diritto alla Materia

Monologhi: Architettura dello Spettacolo
La paura nei confronti della Realtà, del Bene e del Male, ha fatto allontanare l’Architettura dalla Materia, come elemento di contatto fisico e sensuale con la Realtà; l’Architettura ha tentato di sostituire questa relazione con surrogati strategico/comunicativi (leggerezza, trasparenza, ecologia, sostenibilità, perfezione, esattezza, finitezza) o sociologico/comunicativi (non luoghi, visioni, strategie, città diffuse, socialità, comunicazione…..).
L’applicazione pervicace e determinata (“tecnica” diremmo) di questi surrogati, ha contribuito alla determinazione di un’ architettura “distante” e “distaccata”, dotata di finitezza e perfezione, ecologica nella sua pelle e nei suoi interni, un’”architettura della comunicazione”, che usa lo strumento della forma inattesa in termini di spettacolo e di annebbiamento della visione: è il fumo al termine dei fuochi artificiali, che ci lascia fuori fuoco e perplessi nel chiederci perché non possa essere festa tutti i giorni.
Questa idea di Architettura dello Spettacolo è caratterizzata dalla capacità di impressionare, ma non di significare: parla a se stessa e all’universalità astratta della comunicazione, a causa della paura per l’altro, come soggetto fisico e sociale, e implica la creazione di “rifugi” sociali stupefacenti, protetti e dissuadenti: una assurda eccentricità dell’insignificanza.

Condivisione
La comunicazione contemporanea, necessariamente, semplifica gli argomenti per renderli accettabili ed acquistabili (non comprensibili).
Questo non è lo scopo dell’Architettura, che non ha (non dovrebbe avere) nella sua accettabilità o acquistabilità aspetti prioritari. Noi crediamo, ostinatamente, che lo scopo dell’Architettura sia la condivisione, intendendo la condivisione come elemento “connettivo” e socializzante della conoscenza. Quello che vogliamo dire, e non vi è nulla di nuovo, è che la scelta di una “architettura della comunicazione”, è una scelta contro la relazione, contro la polifonia, contro la socializzazione e quindi contro la conoscenza. La comunicazione, intesa come tecnica di veicolazione di un prodotto, non ha niente a che fare con la Realtà, dalla quale anzi si deve allontanare a tutti i costi per crearne di parallele (realtà-bisogni).
La creazione di luoghi che non solo ospitino, ma creino “chiasmi”, relazioni, e che pongano le basi perchè la sommatoria di conoscenze ed esperienze individuali divengano condivisibili, è lo scopo dell’Architettura che perseguiamo.
Probabilmente, la ricerca di un’architettura con questi significati, implica la costruzione di edifici talvolta enigmatici, in quanto portatori di domande, dubbi, capaci di creare meccanismi di visione, e quindi non di certezze, visto quanto la realtà sia fatta di sfuggevoli ed irrinunciabili perplessità.
Tutto questo, dal punto di vista espressivo, non dice ancora nulla a proposito della nostra architettura. I meccanismi, le tecniche di battaglia ed i linguaggi che ci portano a perseguire la “trascendenza” della realtà e la sua conoscenza individuale e collettiva, attraverso l’architettura, sono la fatica quotidiana del perseguire un obiettivo etico.
Il Diritto alla Materia è la prima battaglia che combattiamo.

Architettura come “Corpo sessuato”.
Questa battaglia implica l’idea di un’Architettura che sia “Corpo”, che cerchi il piacere, che abbia fisicità, sensualità, soggettività ed unicità per potersi relazionare e per poter evitare il monologo: una architettura come “corpo sessuato”, portatrice appunto di soggettività, sensualità, piacere, e quindi di incontro/dialogo/polifonia/visione/realtà.
Il Diritto alla Materia quindi come diritto alla soggettività, alla sensualità, al piacere e come diritto/dovere di ricerca dell’incontro con l’”altro”.
Il corpo sessuato è prima di tutto un “corpo parlante”, ossia un corpo che esprime la verità dei propri desideri inconsci, nelle pulsioni legate al piacere: ora, la necessità è di fare in modo che questi desideri e queste sensualità divengano protagoniste di un dialogo, di una mixofila (ovvero di un desiderio a mischiarsi con ciò che è differente), di una polifonia.
Qui crediamo si annidi anche una questione legata all’idea di giustizia, di “architettura giusta”, o di “città giusta”, che è un’architettura, una città che rende possibile l’incontro e la “fusione” fra desiderio ed etica: la “fusione degli orizzonti”, obiettivo primario dell’architettura, è la creazione di condizioni sentimentali e fisiche di dialogo e di relazione, allo scopo di condividere la conoscenza.
Evidentemente, parlare di “corpo sessuato” e “corpo parlante”, significa parlare di sensualità, piacere e godimento anche nei termini di “ciò che non si vuole vedere”, ovvero di bruttezza, violenza, perversione, di Bene e di Male: quindi Pan come “dio” con il quale inevitabilmente confrontarsi; la carne, il cuore, il fegato, le viscere (e non solo la pelle) , insomma la materia, come elementi di dialogo e di dichiarazione di soggettività. E quindi portatori di un Diritto/Dovere etico.
Il tema è così legato all’esperienza di ciò che è “perturbante”, inteso come strumento di stupore e catarsi.

Tema della faglia…della rottura…del non familiare…..e differenza fra lo spettacolo dell’inatteso e il tema di bellezza e conoscenza………

Cinismo e “narcicinismo” (C.Soler).Conformismo in architettura.

“Così attorno a chi non parlava perché lo riteneva inutile, si stendeva e si stende  tuttora un’immensa cospirazione del silenzio, accettata da chi ha paura e da chi si dà buone ragioni per nascondere a se stesso codesto tremore, e suscitata da quanti vi sono interessati. Non parlate della epurazione degli artisti in Russia perché ne trarrebbe vantaggio la reazione. (…) Come dicevo, la paura è una tecnica”.     
( Albert Camus)

L’architettura come corpo sessuato esprime un desiderio ed un enigma, specifici, eccezionali, dentro ai quali ed in presenza dei quali scatenare una reazione di empatia e di catarsi poetica nei confronti della Realtà.
Così, l’unicità, la specificità, la soggettività, la presenza fisica e materica, come valori fondativi del dialogo e della conoscenza, sono quanto di più lontano sia possibile immaginare rispetto all’individualismo e al cinismo.
Perché detestiamo e combattiamo il cinismo ( anche in architettura)?
Oggi l’individualismo ed il cinismo costituiscono le basi del conformismo.
Il conformismo ha varie facce, vari aspetti che lo caratterizzano. Prima di tutto c’ è un profondo senso di colpa nei confronti del piacere, un senso di colpa che attraversa tutta l’Architettura Moderna (spesso più nelle parole dei Maestri che nei loro fatti), ma che è esploso negli ultimi vent’anni con la morte dei “grandi racconti”, delle grandi cause, delle grandi ideologie: quello che era un rifiuto etico militante del piacere (godimento, soggettività, libertà di linguaggio, di decorazione) di fronte all’immensità degli obiettivi ideologici, è divenuto un “imperativo del benessere”. Se nel passato il piacere era un elemento sovversivo, oggi lo si rifiuta, lo si sotterra, trasformandolo in benessere individuale. L’architettura del “benessere ecologico individuale”, dell’”individualismo di massa e dell’omologazione”, vede nella perfezione tecnica e nella sua perdita di peso fisico, il suo strumento di espressione, e confonde la pornografia con la sensualità, la masturbazione forzata e ripetitiva con la sessualità.
Questo è il conformismo in architettura. E’ l’esaltazione del monologo e dell’omologazione essendo venute meno le grandi cause; è la sua moltiplicazione esponenziale, che rende identiche le ossessioni. E’ uno strumento di potere. L’ossessione del conformismo è l’ossessione per il potere, per il suo consolidamento, e quindi l’abbandono della ricerca.
Il cinismo è appunto la costruzione e l’uso del conformismo allo scopo di aumentare e consolidare il potere.
Il monologo porta con se anche l’ossessione per la perfezione. La ricerca della masturbazione perfetta. Mai così realmente cieca, nel rifiutare l’incontro con l’altro e la sua visione.
Il lavoro sulla propria unicità, la ricerca nella specificità e sulla soggettività, il vedere, implicano, come senso e come direzione opposta, il dialogo. L’errore, lo scontro, la bruttezza, ma anche il piacere, il chiasmo.
La bellezza.
Lo spazio pubblico, l’edificio pubblico devono tornare ad essere portatori di singolarità, di sentimento e di piacere per poter essere realmente democratici e socializzanti.

Accecamenti e visione
Se, quindi, lo scopo prioritario della nostra architettura è la condivisione, intesa come incontro fra la percezione sentimentale del singolo e la conoscenza collettiva, allora il concetto di “vedere la realtà”, assume un ruolo centrale proprio nella costruzione del corpo dell’architettura.
Semplicemente, la realtà, la sua percezione e conoscenza, è l’unica verità possibile da perseguire e praticare in architettura.
Il rifiuto del vedere è da molti considerato l’atteggiamento maggiormente caratterizzante la nostra epoca, come reazione alla paura, all’individualismo omologante e al conformismo. Come abbiamo già sottolineato, l’architettura contemporanea, che abbiamo definito architettura della comunicazione, è caratterizzata proprio dal tema della distanza, del distacco, del rifiuto di vedere e far vedere la realtà.
Paura, distanza, amnesia, distrazione, omologazione, accecamento sono tutti termini che appartengono a questo cattivo presente ed ai suoi edifici.
Virilio parla di una “estetica della sparizione”, ovvero di un’architettura, nel “regime dell’accecamento”, che tende a sparire, a nascondersi, ma, soprattutto, a “smaterializzarsi”. La perdita di materia è una perdita di capacità di dialogo dell’architettura nei confronti del mondo, che diviene negazione del vedere la fisicità e il peso della realtà.
Come ognuno di noi sa, il corpo ha una memoria, porta i segni degli accadimenti e del Tempo. L’architettura che tende alla smaterializzazione e all’omologazione, è una architettura che pratica l’amnesia e la distrazione dei confronti della realtà, che è fatta anche di ferite e tempo.
Soprattutto, la realtà intesa anche nel rapporto con la memoria ed il tempo, ha la forza di poter essere condivisa e quindi collettiva, ed è proprio questo a voler essere rifiutato da una tale idea del costruire.
In questo senso tende ovviamente a sparire e ad essere ritenuto superfluo lo spazio come luogo specifico, principalmente pubblico. E’ in atto una vera e propria guerra contro lo spazio (pubblico) e contro la sua fisicità e capacità di chiasmo/dialogo. Così, se l’edifico (pubblico) si smaterializza e perde di capacità rappresentativa (democratica) lo spazio pubblico tende a diventare a pagamento e controllato, e quindi a sparire nella sua capacità di “far vedere la realtà”.
Ma, si badi bene, il rifiuto del vedere la realtà non è un rifiuto di oggettività, ma prima di tutto un rifiuto di dramma e poesia, è un rifiuto di bellezza, intesa come creazione di luoghi di “corpo a corpo” tra globale e locale, tra bene e male, tra diversità di desiderio e di ricerca si piacere. Ed è per questo che la fisicità e la matericità, il peso della bellezza e del piacere, sono la vera possibilità, la vera tecnica di resistenza attiva per una architettura politica contemporanea.

Educazione al vedere ed educazione sentimentale
Per Barthes la lettura fotografica è sintetizzabile attraverso due “luoghi della percezione”, due modalità, lo studium e il punctum. Lo studium rappresenta una distesa, un’estensione di campo, l’informazione legata al sapere personale dell’osservatore, alla sua cultura “classica”. E’ un interesse generale, magari commosso, ma sempre culturale: è l’osservatore che, attraverso la sua cultura, si muove verso lo studium, come verso un semi-desiderio, verso un semi-volere.
Il punctum infrange lo studium, è una freccia che viene verso l’osservatore, colpendo un punto sensibile, aprendo, o riaprendo, una ferita, creando una macchia, come una fatalità.
Lo studium è una forma di educazione quasi classica.
Il punctum la trasforma in un’educazione sentimentale.
Questa forma di educazione sentimentale è una messa in forma della realtà, come dialogo fra la soggettività di chi guarda e l’evento, l’immagine, la visione.
L’architettura dotata di punctum, fa avvenire, ferisce, anima il singolo nella sua specificità e unicità. Come ogni avventura, come ogni educazione sentimentale.
La maniera attraverso la quale l’architettura scatena il meccanismo della messa in forma della realtà è legata all’idea di architettura come corpo soggettivo sessuato e parlante, ed alla sua capacità di creare punctum. L’esperienza del punctum, è atto costitutivo del rapporto con il contesto. L’architettura che crea quest’esperienza di educazione sentimentale, mette in forma il contesto stesso e quindi la visione della realtà.
Luigi Ghirri, parafrasando Giordano Bruno, scrisse:“le immagini sono enigmi che si risolvono con il cuore”. Parafrasando Ghirri, noi diciamo che “ l’architettura è un enigma che si risolve con il cuore”.
Il punctum è così anche un enigma. Il suo ritrovamento è casuale, fortunato; è anche legato alla buona sorte del talento: “io non cerco, trovo”:
Il punctum è una freccia che colpisce il cuore, il fegato, la carne, la materia del soggetto. E parte dal cuore, dal fegato, dalla materia dal corpo dell’architettura.
E’ un vis à vis,
un corps à corps,
un cœur à cœur,
un foie à foie.

Il tema è quindi il rapporto (sentimentale) dell’individuo con la realtà (che è per inciso proprio del Realismo magico italiano): l’individuo conserva qualcosa di decisivo perché all’interno della realtà riesce a vivere una commozione, un’illusione miracolistica, uno stupore che gli permette di costruirsi un linguaggio e di dare una forma a questa realtà; per Carrà ad esempio si tratta della convinzione della portata spirituale insita nelle forme italiane, la struttura che “si fa commozione”, e valore simbolico, archetipo. Anche arcaico. E’ la luce che, riflessa sul passato, illumina un presente possibile.
Se per Pollock era la dimensione dell’America a doversi riflettere nella pittura, allora l’Italia è composta di una “materia sentimentale”, che si deve riflettere nell’architettura.
Questa forma di educazione sentimentale implica l’atto di vedere.

Contemplazione come azione non pacificatrice: la “contemplazione coinvolgente” e il “Realismo visionario”.

La contemplazione come contatto con la materia (attraverso gli strumenti dello stupore, del non familiare etc.) diviene l’azione da percorrere per rientrare in contatto con la realtà (con il male, con la verità): la ricerca della condivisione è la scelta di abbandono del monologo per la polifonia.
Per una Poetica realistico visionaria, oltre il realismo mimetico.

Gianluca Peluffo
Luglio/agosto 2010

Diritto e dovere al PIACERE

“Due cause appaiono in generale avere dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni”
(Aristotele, Poetica)

Noi consideriamo l’opera poetica (architettonica) come strumento di conoscenza.
Oggetto della poesia sono le cose “possibili per verosimiglianza”

“Ciò che importa è la capacità rappresentativa (mimetica) di cui il poeta deve dare prova. La narrazione, che è fatta di un inizio e di una fine (e di un fine) è costituita di una sequenza significativa (costruita per mimesi) di elementi, che sono scelti nell’infinita e casuale massa di fenomeni della realtà e della memoria storica, che il poeta (narratore, pittore, scrittore, architetto) propone con un duplice fine estetico e conoscitivo al pubblico.
(…)“A differenza del vero, il verosimile è qualcosa che accade “per lo più”, ha dunque a che fare con il possibile e il probabile.” Ferdinando Amigoni, “il modo realistico-mimetico” Laterza, Bari, 2001

L’arte poetica (architettonica) è un gioco mimetico per adulti, dove la mimesi non ha come scopo lo scomparire e il nascondersi, ma al contrario il mettere in moto il meccanismo del piacere e della condivisione che porta alla conoscenza.
La sua “catena concettuale” è costituita da: mimesis-verosimile-universale-identificazione-piacere/catarsi-conoscenza (condivisione).
l’Architettura ha come scopo la condivisione.
La macchina poetica architettonica sceglie e mette in moto elementi della realtà e della memoria storica e mitica, capaci di mettere in contatto il sentire individuale e quello collettivo.

Gli scopi che noi perseguiamo nell’Architettura sono il piacere e la conoscenza.
Gli strumenti che utilizziamo sono la narrazione, la scelta degli elementi della narrazione, la scelta del linguaggio, l’uso della verosimiglianza (del possibile, del probabile, dell’immaginabile) e della conseguente meraviglia.

Gianluca Peluffo
Per 5+1AA SRL

aprile 2014-09-14

Il colore come forma visibile della generosità
Gianluca Peluffo

Molto spesso certe cose esistono perché ne esistono gli opposti.
Se dovessi elencare le opposizioni generatrici incontrate nel nostro cammino di progettisti e “costruttori di realtà e di cittadini”, partirei di certo da quelle tra visibile e invisibile e tra autobiografico e collettivo.
Proprio come dialoghi fondativi un’idea di architettura.
La nostra idea di architettura.
Il visibile è la materia, il corpo, il peso.
L’invisibile è l’anima, l’altrove, l’immaginato, l’evocato.
L’architettura è azione di messa in forma del Reale come rapporto tra questi opposti: ciò che è profondamente fisico e ciò che è spirito ed evocazione, e fra ciò che è il sentire personale e il sentire collettivo.
Il colore è il misterioso risultato di una commovente opposizione, quella tra luce e oscurità.
Quindi tutta interna alla natura e ai nostri occhi, che natura sono.
Se il Linguaggio architettonico, quello che noi chiamiamo “Stralinguaggio”, perché sintesi e invenzione specifica della condizione contemporanea, è lo strumento di messa in forma del dialogo con la Realtà, allora il colore è di certo uno dei componenti essenziali di questo linguaggio sintetico e specifico.
Parlare come corpo fisico ed evocare l’anima dei luoghi e delle collettività é l’azione che l’architettura svolge attraverso il Linguaggio.
In quest’azione il colore assume un ruolo molto spesso chiave, in quanto elemento di condivisione collettiva.
Tutti “sentono” il colore.
Quante volte, da bambini (e spesso da adulti, bisogna per fortuna ammettere), ci siamo trovati a cercare di individuare, nominare, capire i colori di un tramonto o di un’alba? Rosa, arancione, azzurro, carta da zucchero, cobalto, lilla, grigio, bianco; sempre con la sensazione che ne sfugga la vera essenza.
Ecco.
Questo è il senso del lavoro con il colore.
Una ricerca velleitaria ma umana e comprensibile, anzi fondamentale, di fissare un’espressione della vita e della natura in un momento fisico del tempo e della materia.
Pensate a Morandi. Provate a descrivere i colori delle sue nature morte o dei suoi pochi paesaggi.
Quando abbiamo dovuto lavorare sul dolore e sulla restituzione dell’intimità del post-terremoto in Molise, ci siamo aggrappati a lui e al lavoro di Luigi Ghirri su di lui.

“Ciò che amo, nelle fotografie di Ghirri, è proprio questa capacità di arrendersi a una sorta di animazione interna delle cose, che già sapeva guidare sulla tela la mano di Morandi, e che per Merleau –Ponty si realizza quando “il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del medesimo Essere”.
Mentre pensavo a queste cose, e percorrevo un’autostrada ingolfata dal traffico estivo, mi è sembrato di cogliere un insegnamento morale: la serenità di visione, che emanano i quadri di Morandi e le fotografie di Ghirri, può aiutare a trovare una misura che annulli quel distacco, assai pericoloso, che abitualmente sentiamo dal mondo, e che fa sì che il mondo somigli sempre di più alle nostre menti che non sanno più abitarlo.”
Giorgio Messori, da: Luigi Ghirri, Atelier Morandi, Palomar Editore, Bari, 1992

La serenità di visione.

E soprattutto la volontà ferrea di non pensare l’architettura come “specchio della nostra mente”, ma come connessione fra materia e anima. Connessione che appunto ha poco a che fare con la mente.
Allora a San Giuliano i colori di Morandi, sull’intonaco, divennero parole di una narrazione che provava a coinvolgere i campi coltivati, il paesaggio, oltre agli uomini. Era un atto di generosità di fronte alla disperazione.
Si trattava poi di intonaco, di colore che cambia con il tempo, perché in fondo il tempo, in quel lavoro sul colore, era proprio quello che chiedevamo: “avere tempo, avere storia”. Per ricostruire un’identità.
Altre volte il colore è luce, scenografia; generosità sempre.
“Da quando c’è la facciata nuova qui su Via Piranesi, con il suo rosso fuoco, per è sempre come essere a Teatro a vedere l’Opera”. Queste le parole di una Signora avanti con gli anni, che vive di fronte ai Frigoriferi Milanesi a Milano. Non penso si possa spiegare meglio il perché di quel lavoro sulla vecchia facciata della manica bassa. Riscatto, allegria, carattere. Come un semaforo nella nebbia di Munari, allegro appunto, grande, coraggioso e non di divieto, ma di energia vitaminica.
Altre volte, alla periferia, abbiamo regalato un riscatto attraverso i suoi stessi linguaggi, colori; dolori forse. Come in uno dei quadri delle Periferie di Mario Sironi. La torre di IULM 6 sceglie di parlare il linguaggio della periferia, con il suo rosso/arancione, opaco, a cavallo fra la casa del cantoniere e il mattone. Sironiano appunto. Ma soprattutto opaco. Perché in quel caso non sono la trasparenza e la lucentezza il riscatto.
Ma piuttosto il contrasto fra l’opacità dell’intonaco rosso e la sfaccettatura del vetromattone diamantato semitrasparente, pieno, massivo, della ceramica sfaccettata verde. E del cemento a vista industriale, oltre al vero mattone. Le scale metalliche, di sicurezza e di fuga interiore, della gradazione del rosso/arancione, ricordano urbanità periferiche antiche, con una specie di allegria milanese.
Qui la torre opaca e sironiana nasconde un’idea di “ricerca interiore”, ovvero un concetto di chiusura rispetto all’esterno di chi deve “crescere studiando, ricercando”. Nella Scuola Elementare di Zugliano, ai piedi delle Prealpi Vicentine, il tema di partenza era esattamente l’opposto, ovvero la scuola come apertura verso il mondo esterno. Quest’apertura avviene in maniere fisiche e di uso, e in maniere simboliche. La corte interna, una sorta di “radura” di “turriana” memoria circondata appunto da pilastri “alberi”, sotto al cui ombra si può sostare, si apre verso il cielo, ritagliandone la forma, e a lui si presenta con i colori dell’energia dei fiori primaverili: azzurro, viola, cobalto. Sono i colori dell’energia e della libertà dei bambini che s’inseguono, corrono, girano in tondo, sognano e disegnano castelli in aria, perché vedono il cielo e i suoi colori.
Qui il colore è proprio dialogo con la natura, con il mondo tutto da scoprire, disegnare, immaginare. Così, il tetto, rivestito in lamiera, specchia la natura. Se nella corte la natura entra e “fiorisce”, il tetto specchia il cielo, le nuvole, nelle sue gradazioni di azzurro, bianco grigio, e dialoga con il profilo delle prealpi, parlando con la “neve di maggio” che le accarezza.
Nella nuova Sede dell’Agenzia Spaziale Italiana, il colore diviene la traduzione simbolica e linguistica di una scelta di contenuto: come rappresentare la Ricerca Scientifica applicata allo Spazio? Attraverso la tecnologia? Noi abbiamo scelto di farlo attraverso il Mito dello Spazio, archetipico, di futuri possibili e di altrove.
Il nero totale: tutti materiali imbevuti nel nero, come il monolite di Kubrick. Del resto è nel cinema migliore che si trova il meglio dell’evocazione di futuri possibili, cupi, archetipici, Bui.
Allora il contrasto con il nero profondo avviene, all’interno, nei luoghi di lavoro (declinati nei grigi leggeri e negli arancioni vitaminici) e soprattutto nella mensa, là dove, in uno spazio ipostilo e quindi mitico, gli infiniti colori possibili (10/20/100) dialogano con la luce e il tempo, portando luce e tempo dentro il nero profondo.
A Genova, nella Torre di MSC, la natura è quella dei cieli e dei mari della città di porto sferzata dai venti violenti, che disorientano fino all’impazzimento, o energizzano fino alla follia e dalla “macaia”, l’umido che deprime e sfianca.
Che colore ha la macaia? Che colore ha il vento?
Sono i colori che umido e vento creano nel cielo e nel mare.
Sono le gradazioni di verde, azzurro, blu, grigio, quasi nero.
Sono aria di vetro e grigio cupo della tempesta.
A Marsiglia, nei Docks, la natura è quella trasportata dalle navi senza tempo, nel porto, nei porti del Mediterraneo. Immaginata, immaginaria, reale, profumata, esotica. E’ acqua. Una specie di onda mossa dalle navi in accosto che invade una corte, mentre le altre accolgono il carico di sogni e natura delle navi stesse.
L’edificio, mastodontico, opaco, di industriale e antica monumentalità, si riempie di allegria, follia, gioco, calore del colore e della materia. Come sintetizzare in un eccesso linguistico ed espressivo, la follia, la nausea, la moltitudine dei porti, degli angiporti, delle vie nascoste, del mare aperto, o del mare morto.
Anche qui il colore, unito alla materia ceramica, sia plastica che industriale, diviene il nostro modo di mettere in forma fisica e cromatica l’Anima di un edificio, di una città, di una luce resa di vetro dal Mistral.
Guardando le albe e i tramonti dei nostri cieli, nel nostro tentativo di racchiudere la variabilità della natura dentro agli stretti e limitati nomi dei colori, ci imbattiamo d’improvviso in ciò che non “sarebbe” colore, ma che è materia, ricchezza, e che con stupore e meraviglia evochiamo: “Guarda.E’ color oro!”.
E’ oro.
L’oro non è ricchezza.
E’ bellezza condivisa.
Lo è nella storia dell’arte italiana.
Sono le ali dell’Arcangelo nelle Annunciazioni. Con le parole che lo accarezzano.
Allora, quando ci trovammo a dover segnare un limite fra Milano e la Fiera di Rho, un prima e dopo, un “dalla città” e un “verso la natura, verso le montagne”, come una mano appoggiata su una cartina tridimensionale, di quelle delle nostre scuole elementari, per la Torre Orizzontale, abbiamo pensato che l’oro, declinato come materia e colore (nel vetro, nel metallo, nel fibrocemento), potesse rappresentare la bellezza da tutti condivisibile, capace di cambiare infinite volte nel corso della giornata, nel corso elle stagioni: l’oro e l’alba, l’oro e il sole di mezzogiorno, l’oro e il sole invernale, l’oro e la nebbia, l’oro e il tramonto primaverile, l’oro e il blu profondo dell’ora prima della luce.
E quindi appartenere a tutti.
Dentro a quell’oro, abbiamo piazzato un’aia rossa.
Una specie di rosso cuore agricolo che si fa attraversare dal paesaggio e dal vento. Intonacato in varie gradazioni di rosso e marrone, dichiara la volontà dell’architettura di parlare con il territorio, come un corpo decide di esporsi alla natura.
Il colore, in fondo, è proprio una forma visibile di generosità.
Quella generosità che ci rende capaci di dichiarare la nostra inferiorità nei confronti della natura e del paesaggio, e la nostra perenne devozione e appartenenza a essa.

Gianluca Peluffo
Per 5+1AA